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Todorov: “Totalitarismo è schizofrenia. Quei carnefici, padri e mariti perfetti”
07.10.1997
Il filologo rileva l’uso ambiguo del termine per un fenomeno che si è storicamente presentato in forme contraddittorie.
E il genocidio, a suo dire, può esserne una manifestazione, ma non ne rappresenta necessariamente un elemento costitutivo.
“Le parole non sono iscritte nelle cose”. Da filologo, Tzvetan Todorov, sa che non è possibile dare una definizione esatta
dell’aggettivo “totalitario” e nemmeno delle “categorie del totalitarismo nella interpretazione del XX secolo”, tema su
cui è stato correlatore con lo storico Claudio Pavone nella sessione conclusiva del convegno che l’Università di Siena ha
promosso nell’abbazia di Pontignano. Con una lacuna: il fascismo italiano. Solo nell’ultima giornata l’acceso intervento
di una signora albanese ha sollevato il tema, che Claudio Pavone ha affrontato in relazione agli altri totalitarsmi, quello
sovietico di cui è coevo, e quello nazista, che ha anticipato.
L’aggettivo totalitario, ha ricordato Pavone, fu coniato dagli antifascisti (Giovanni Amendola fu il primo a bollare
così il fascismo), ma fu poi assunto da Mussolini per definire la fase che si apriva dopo il delitto Matteotti, una sorta
di spartiacque tra l’autoritarismo che caratterizzò il regime fino al 1925, e il totalitarismo degli anni successivi, definito
anche “imperfetto”, non si sa bene se nella ricerca dei limiti o di un alibi.
“C’è una parte iscritta in quell’aggettivo “totalitario” imposto storicamente, ma parlando di “categoria del totalitarismo
nel XX secolo, bisogna circoscrivere l’analisi rispetto all’uso che se ne è fatto”, osserva un Todorov abbastanza pessimista
sul futuro.
E qual è l’uso che se ne è fatto, secondo le categorie interpretative del Novecento?
“Considerando anche certa filosofia o ideologia, se vuole, l’uso è stato caratterizzato da una grande ambiguità per la possibilità
del totalitarismo di manifestarsi in forme contraddittorie. Non è certo possibile entrare nei dettagli, ma si può dire che,
rispetto ad uno Stato pervasivo nel quale tutto si riassume, il totalitarismo non è mai “totalmente” riuscito. Non esiste,
insomma, un “totalitarismo totale”. Esiste semmai una “tendenza” verso il totalitarismo. Poi ci sono gli strumenti, onnipresenti
nella società, con i quali ha tentato di imporsi: il terrore, la paura della violenza, il sospetto, le prigioni, i campi
di concentramento”.
Nel suo libro “Di fronte all’estremo”, lei sostiene che il genocidio, può essere una manifestazione, ma non è i scritto
nel totalitarismo. Pensando all’Olocausto è difficile immaginarlo. Vuole spiegare il concetto?
“È quel che penso. Può anche essere scioccante rispetto alla peggiore delle accuse che si rivolge all’hitlerismo: lo sterminio
degli ebrei. Ma, se resto nella logica del totalitarismo, l’efferatezza di quel crimine, non mi sembra si iscriva nel sistema.
Le ripeto l’esempio che ho portato al convegno. Guardiamo alla Germania nazista. Se, morto Hitler, lo si immaginasse sostituito
da Goering, si può anche immaginare la continuazione dello Stato nazista, l’onnipresenza della polizia, i campi di concentramento
per gli oppositori e i diversi, per le razze inferiori, ma non lo sterminio. Se penso allo stalinismo mi sembra invece che
la persecuzione sistematica, sviluppata da Stalin in una certa epoca contro i quadri stessi del partito comunista, superi
la stessa logica del regime totalitario”.
Addirittura. In che senso?
“Perchè nella logica del totalitarismo bisogna assicurarsi il potere assoluto, cercando di unificare al massimo le forze.
Nel momento in cui Stalin fa fucilare Yagoda o gli altri massimi dirigenti a lui assolutamente devoti e non in concorrenza,
porta il terrore fin dentro il partito, fra i suoi più fedeli collaboratori”.
Lei ha scritto anche che non sono i popoli tedesco, russo o bulgaro ad essere diversi. La diversità è nei regimi totalitari.
È vero, ma allora ognuno può giustificarsi sostenendo di aver eseguito un ordine, obbedito alla legge. Norimberga insegna.
È il regime totalitario l’unico responsabile. Nessuno sapeva dei lager, neanche chi respirava i fumi dei forni crematori.
“La colpevolezza dell’individuo nel regime totalitario non si manifesta allo stesso modo dei regimi borghesi, democratici
tradizionali. Il rischio che lei evoca è reale. Fino a che livello si possono individuare le responsabilità? Io stesso mi
sono proposto il problema. Lei sa che io ho vissuto i miei primi 24 anni in un paese, la Bulgaria, che era uno Stato totalitario.
Gli ultimi anni che ho vissuto in Bulgaria, tra il ‘58 e il ’61 ero all’università. Nei campi di concentramento peggiori,
i più brutali di quelli che esistevano, ed erano tanti, si registravano magari 800 mille morti, ma su duemila prigionieri.
Una percentuale altissima. Quelli che uscivano erano segnati per tutta la vita. Eravamo giovani. Davvero devo sentirmi responsabile
di qualche è successo? Me lo sono chiesto”.
Che risposta si è data?
“Non è facile rispondere. A partire da quale livello si è responsabili? Comprendo il rischio che lei prospetta. Se interpreto
la stessa legalità, così distorta, con gli strumenti del terrore, allora la responsabilità collettiva non esiste più, perchè
nessuno poteva trasgredirla. Se guardo alla mia esperienza individuo la responsabilità nei ministri, nei membri dell’ufficio
politico, negli apparati polizieschi”.
Riprendendo Hanna Arendt, lei ha dato anche una lettura psicanalitica, freudiana, parlando di schizofrenia dei persecutori.
Che meccanismo scatta nei carnefici?
“È una sorta di protezione. L’uomo si protegge innalzando uno schermo tra l’ufficio che dirige o nel quale lavora, che ha
come compito lo sterminio, e la sfera della famiglia. Solo così può vivere, costruendo un muro immaginario che gli consenta
di dire: qui compio il mio dovere, obbedisco agli ordini e alle leggi. Quando passo quel muro io divengo un buon padre,
uno sposo fedele, sono gentile, suono della buona musica. Dietro quel muro si sente protetto. Questo vale per tutte le situazioni
drammatiche, di repressione. Anche noi che eravamo gli oppressi l’abbiamo vissuto come una sorta di schizofrenia, attraverso
l’amore, l’amicizia, la musica, la gioia. Era necessario per continuare a vivere. È tragico, ma è così”.
Senta, professor Todorov, dalla lettura dei suoi libri e ascoltandolo, si ha l’impressione che lei non abbia una visione
molto positiva del futuro. E se pensiamo che alle soglie del XXI secolo siamo ancora alle prese con la “pulizia etnica”
e con la voglia di secessione, forse non ha proprio torto. Ma il suo pessimismo sfugge al contingente. Lei afferma: ”Nessuna
nuova etica, nessuna nuova immagine dell’uomo è all’orizzonte”. Chi riempirà questo vuoto?
“È vero, non ho un’idea molto positiva dell’avvenire. E non tanto perchè non sappiamo dove cercare una morale che riempia
quel vuoto di cui parla. Fin dal Rinascimento, dall’umanesimo si è cercato e indicato un ideale degno di esistere e questo
ideale umanistico, per quel che ci riguarda, è ancora oggi un’idea molto importante. Vede, l’inizio di una morale sta nella
coscienza che non c’è nulla al di là dell’uomo nella sua particolarità, nella sua individualità. L’uomo, come sostiene Kant,
che non va mai utilizzato come strumento per altri fini, magari anche nobili come il benessere universale: oppure ignobili
come la purezza della razza, o la purezza etnica. Bisogna, comunque, sempre diffidare perchè il fine vero è l’essere umano,
la sua individualità. Ecco questo è quel che io intendo come primo passo della morale”.
La morale è per lei anche un punto di riferimento importante per interpretare il totalitarismo.“L’uomo non può vivere
senza morale. Può rifiutare le etiche del passato, ma non l’etica come tale”. Su questa strada lei, tra l’altro, oppone
la virtù eroica alla virtù quotidiana. Perchè?
“Questo è un argomento un po’particolare. La virtù eroica e la virtù quotidiana sono ambedue degne d’ammirazione e di rispetto.
Ma la nostra tradizione europea ha troppo valorizzato il coraggio cometale, l’atto eroico, l’abnegazione assoluta, il sacrificio,
senza tenere conto del grande valore di un tessuto virtuoso fatto di gesti quotidiani, forse più umili e normali, meno eloquenti,
ma assolutamente indispensabili per costruire la nostra vita. C’è tanta moralità in semplici, come accudire un bambino.
È su questi piccoli gesti, meno eroici, che riposa il nostro modo di essere, il nostro vivere quotidiano”.
Ma lei, ha fiducia nell’uomo?
“No”.
Allievo di Roland Barthes
Tzvetan Todorov
è nato nel 1929 in Bulgaria, a Sofia dove ha vissuto i primi ventiquattro anni della sua esistenza, per poi emigrare a Parigi,
dove ha completato gli studi e dove attualmente risiede. Filologo e studioso di etnologia, ha studiato con Roland Barthes.
Tra le opere tradotte in italiano: “La
letteratura fantastica” (Garzanti 1977); “Teorie
del simbolo” (Garzanti 1984); “La
conquista dell’America: il problema dell’altro” (1984); “Di
fronte all’estremo - Quale etica per il secolo dei gulag e dei campi di sterminio?” (Garzanti 1992).
Nel suo ultimo libro, Todorov affronta il problema della morale alla fine del millennio. La sua considerazione è amaramente
pessimista: “Dopo il crollo delle ideologie, sui cui altari sono stati sacrificati milioni di esseri umani, nessuna nuova
etica, nessuna nuova immagine dell’uomo sembra nascere all’orizzonte”.
Autore: Renzo Cassigoli Fonte: L'Unità
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