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(Istituto per l'Oriente "C. A. Nallino", Roma - Associazione "OXUS")
Questo testo è tratto dal volume Storia dei Turchi di Dobrugia
di Giuseppe Cossuto, Edizioni Isis, Istanbul, 2001. Nell'introduzione al volume
il professor Mihai Maxim, Presidente del Centro di Studi Ottomani di Bucarest scrive:
"Ci troviamo davanti alla prima sintesi sulla storia dei Turchi dobrugiani realizzata
da un orientalista straniero ("straniero" nel senso che non è nato, cresciuto o
legato ufficialmente - attraverso la cittadinanza - alla zona dobrugiana). Il dosaggio
razionale delle informazioni incluse giorno per giorno nei capitoli, lo stile limpido,
le tavole cronologiche e altre appendici, contribuioscono ad accrescere l'utilità
del presente lavoro." (p. 7). Si ringrazia l'autore per la gentile concessione.
Come già accennato nei paragrafi precedenti, i gruppi turchi che vivevano
in Dobrugia e nelle aree circostanti, avevano riprodotto il sistema conosciuto,
anche tramite la felice espressione di R. Grousset, come feudalesimo delle steppe.
Boris Vladimirtsov ha dettagliatamente descritto, più di cinquant’anni or sono,
questo sistema sociale così caratteristico delle popolazioni nomadi euro-asiatiche.
Per quel che concerne nello specifico i Turchi di Dobrugia, rappresentativi
della presenza turanica anche in altre regioni dell’attuale Romania, della Moldavia,
della Crimea e di buona parte dell’Europa centro-orientale, ci si limiterà a chiarire
dei concetti che, purtroppo, sembrano ancora essere alquanto nebulosi e lasciano
spazio ad interpretazioni idilliache e fantasiose che poco hanno a che vedere con
la realtà storica.
Quasi sempre si definiscono i Turchi in Europa orientale
come popolo migratore, dando quasi una idea di passaggio, di una non permanenza
sul territorio. Poco importa se gli Avari, i Peceneghi, i Cumani e gli altri si
sono stanziati per vari secoli nella stessa area, se hanno intrattenuto relazioni
politiche e hanno dominato territori immensi. Nella visione stereotipata e persistente
di taluni autori i Turchi sono stati solo di passaggio, non hanno portato nulla
di buono, anzi hanno distrutto le fiorenti città commerciali (e quindi il “mondo
sedentario”) e “ritardato lo sviluppo” delle “nazioni” dell’Europa Orientale rispetto
a quelle dell’Occidente. Un “transito” e un “ritardo” durato molto più di un millennio,
che sfalsa la “normale evoluzione” di un gruppo umano dato.
Non è mia intenzione
nella presente monografia controbattere in toto questa visione storica datata (anche
perché i rapporti tra i “popoli migratori” e gli “autoctoni” nello spazio rumeno,
almeno in relazione ai secoli XI-XIV, sono stati già ben delineati da Victor Spinei,
sia pure durante un’epoca in cui il controllo censorio sulla ricerca in Romania
era ancora presente e pressante) ma, allo stesso modo, delle precisazioni al riguardo
si rendono necessarie per superare alcuni luoghi comuni.
Innanzitutto, in
grandi linee, il rapporto che hanno avuto i Turchi (in particolare quelli delle
odierne entità statali di Romania e Moldavia) con il nomadismo, sistema economico
che è stato indubbiamente uno dei modi di vita basilari dei turcofoni, ma non è
stato certo l’unico né, tanto meno, ha determinato “stadi sociali inferiori” o “rallentamenti”.
Abituati come siamo ad associare il termine nomade soltanto allo “zingaro” perdiamo
tutto il suo senso e significato reale. La parola “nomade” proviene dal greco nemô,
ovvero “conduco al pascolo” e definito in sintesi, il nomadismo è un’attività economica
che consiste nell’interporre l’animale tra l’uomo ed il suo ambiente geografico.
Inteso in questo senso il nomadismo viene quindi a coincidere con la pastorizia,
ovvero con lo spazio stesso dell’attività economica.
Sembra essere quindi
principalmente la relazione tra nomadi e sedentari, ovvero tra lo spazio necessario
ai primi e ai secondi e le esigenze degli uni e degli altri (non sempre coincidenti
ma tuttavia neppure sempre divergenti), che caratterizza i gruppi egemoni turchi
del Mar Nero sia nel periodo pre-ottomano che in quello ottomano (almeno fino alle
guerre russo-turche del XVIII-XIX secolo, quando, come vedremo nei capitoli successivi
l’intero sistema sociale dei Turco-tatari venne modificato e l’elemento nomade perse
la sua forza militare ed insieme ad essa la sua dignità).
Si può considerare
che lo spostamento delle genti turche verso l’Impero romano (ed i suoi successori)
abbia avuto come direttrice principale il sud-ovest ovvero i territori sedentari
per eccellenza, quelli del grande impero. Nello spostamento verso i territori bizantini
da parte delle potenti confederazioni turche si possono individuare quasi tutte
le caratteristiche “classiche” del nomadismo guerriero turco-mongolo, tra le quali
spiccano innanzitutto, come scrisse esemplarmente H. H. Stahl:
“In seno
ad una stessa tribù dedita alla pastorizia, un’“aristocrazia tribale” può sorgere
in seguito alla specializzazione guerriera di un certo gruppo, in occasione dei
furti di bestiame tra le varie tribù. Mantenuti all’inizio dai propri compagni di
tribù, questi gruppi guerrieri percepiscono una decima sui prodotti comuni necessari
alla loro sussistenza e contemporaneamente beneficiano di alcune corveés prestate
più o meno volontariamente. Esercitando come unica professione la guerra, essi si
arricchiscono per mezzo del bottino e degli schiavi sottratti alle tribù vicine.
Per aumentare la loro forza, e intraprendere razzie a grande distanza, successivamente
si confederano e, sotto la forma che Marx chiama “eine Reisegesellschaft”, possono
mettersi in moto, come una valanga, aumentando di numero nel corso della loro avanzata,
spazzando al loro passaggio le tribù refrattarie, trascinando al loro seguito quelle
che, per amore o per forza, rientrano in seno alla confederazione conquistatrice,
secondo una certa gerarchia che, essa stessa, può essere definita un particolare
tipo di feudalesimo”.
I Turchi nell’area che ci interessa sono quindi
principalmente guerrieri, dotati di un non trascurabile potenziale militare e di
una organizzazione polemica e di tecniche militari che influenzeranno sia i gruppi
umani a loro sottomessi (principalmente Slavi e Valacchi) che gli eserciti di coloro,
come i Bizantini, per i quali servivano come mercenari, quasi sempre contro altri
Turchi.
Il rapporto che le confederazioni turche dobrugiane ebbero con le
compagini loro sottoposte rispetta anche in questo gli schemi classici riferiti
dallo Stahl.
Generalmente, infatti sia gli Unni, che gli Avari, che i Bulgari
e le altre confederazioni successive domineranno le popolazioni a loro assoggettate
in maniera da lasciar sì loro le proprie tradizioni e costumanze ma, come narra
ad esempio riguardo gli Avari lo storico dei Merovingi (inizi del secolo VII) Fredegario,
non certo con rispetto:
“Tutti gli anni venivano a svernare tra gli Slavi,
ne prendevano per giaciglio le mogli e le figlie; inoltre, inoltre con l’obbligo
di versar tributi, gli Slavi subivano molteplici tormenti”.
Allo stesso
tempo vi era spesso la tendenza ad utilizzare anche il potenziale militare delle
genti sottomesse, tecnica che aveva il duplice scopo sia di diminuire il numero
dei guerrieri di costoro, sia di valorizzare quello dei Turchi, quasi sempre in
inferiorità numerica considerevole nei confronti dei propri soggetti. Questa utilizzazione
come “carne da macello” degli Slavi e dei Valacchi potrebbe spiegare il perché si
incontrano in varie cronache miniate (celebri sono ad esempio le bellissime immagini
della Chronicon Pictum del 1360, riferite alla leggenda di San Ladislao “il Cumano”)
i “sottoposti” abbigliati come i “dominatori”.
Il rapporto tra una confederazione
e un’altra lo abbiamo visto. I Turchi possono assoggettare altre genti, invadere
imperi e distruggere città ma il loro nemico principale sono e rimangono gli altri
Turchi. Almeno fino a quando le orde egemoni non vengono sterminate e le altre si
uniscono al vincitore. È il caso che si è già citato della lotta tra Kegen e Tyrach
dopo la quale il federato pecenego insiste presso i Bizantini di eliminare definitivamente
i nemici sconfitti (salvati dalla “romana clemenza”, o forse meglio, dal calcolo
politico ed economico degli imperiali che, disperdendo i Peceneghi nelle pianure
deserte della Bulgaria e sottoponendoli a tributo, avranno ricchezze inimmaginabili).
Altri esempi di questa tendenza all’“annientamento del turco” possono riscontrarsi
nelle lotte secolari che opporranno gli stessi Peceneghi agli Uzi, ben descritte
nel Kitab-i Dede Qorqut e che troveranno significativamente il loro epilogo proprio
nell’area che si sta trattando, con lo scomparsa e l’assorbimento delle gente uze
o nelle guerre tra Peceneghi e Cumani e tra questi ultimi e i Tatari. Ritroveremo
queste lotte cruente nei secoli successivi nelle guerre tra Mangït e Gengiskhanidi,
guerre che si perpetueranno con le stesse modalità dell’annientamento totale della
compagine turca più vicina, anche in periodo ottomano, con la faida sanguinosa tra
i Nogay di Kantimur Mïrza e i Giray.
Generalmente la cellula di base della
società turca antica è il nucleo familiare ristretto, di filiazione esogamica in
linea patrilineare, i cui membri hanno in comune un nome ed una leggenda d’origine.
La famiglia, che è sempre membra di un clan (ovvero di quelle oba che vedremo successivamente
islamizzare la Dobrugia), è inserita in una serie di relazioni, poiché le condizioni
economiche e quindi geografiche non ne consentono l’isolamento. Quando a seguito
di qualche avvenimento cruento, la perdita di forza coesiva dell’oba produce lo
sgretolamento della stessa e il gruppo non può inserirsi in un’altra compagine avente
lo stesso sistema, si avrà la dispersione e la creazione di bande raccogliticce,
anche numerose, dall’identità fragile che sopravviveranno, il più delle volte, nomadizzando
parassitariamente. Nei casi più fortunati se l’élite guerriera è ancora solida potrà
vendere i propri servigi come truppa mercenaria o, meglio ancora, continuerà a dominare
le comunità non-turche soggette fino ad essere assorbita da queste ultime.
Come si sarà notato è principalmente sul sistema bellico che si fondano le società
turche antiche e medioevali. Tutto sembra essere organizzato in funzione militare,
la famiglia, le alleanze matrimoniali, l’accumulo di patrimonio basato quasi essenzialmente
sul cavallo e sui metalli nobili. Il cavallo è l’animale prediletto, il più utile
“strumento” per la guerra e quindi il più amato. Le mandrie di cavalli sono numerose,
al pari delle greggi di ovini che sono custodite dai popoli sottoposti, anch’essi
pastori e compartecipi della ricchezza di base dei Turchi. I Turchi in Dobrugia
e nelle steppe ucraine e pannoniche troveranno terreno fertile per l’allevamento
estensivo dei cavalli. Nei territori circostanti, dove era impraticabile questo
genere di allevamento, si preferirà far razzia e costruire fortezze di controllo
dei passi montani e dei fiumi, lungo le rive dei quali si nomadizzerà seguendo il
ritmo stagionale. È per questo che buona parte dei lasciti delle lingue turche pre-islamiche
in rumeno sono degli idronimi.
Le classi dirigenti turche nei rapporti con
i sottoposti erano impermeabili e chiuse. Certo non mancavano unioni con donne non
appartenenti al gruppo, ma i figli nati da questi congiungimenti restavano inseriti
nel sistema sociale turco a tutti gli effetti (anche successori ed ereditari) e
quindi parte integrante della grande famiglia. Grazie a ciò i Bulgari, gli Avari
e gli altri hanno potuto mantenere il proprio potere sulle masse assoggettate, ma
allo stesso tempo si sono mescolati con tutte le genti che hanno incontrato.
Le tecniche di guerra dei Turchi antichi sono improntate al mantenimento e alla
protezione del gruppo turco egemone. Sono infatti quasi sempre i vessati vassalli
alleati a costituire le prime linee nella battaglia. Se costoro vincono la vittoria
è dei Turchi, se costoro stanno per avere la peggio, allora i guerrieri turchi ribaltano
le sorti della battaglia con l’intervento della propria, invincibile fino al XVIII
secolo, cavalleria leggera. Nei secoli seguenti nella stessa area, l’Impero ottomano,
il Khanato di Crimea e i Nogay, codificandola tramite trattati ed adattandola alla
legge islamica, sostanzialmente continueranno questa tradizione.
Per contrastare
la fragilità stessa del proprio sistema relazionale, i popoli si confederano per
darsi protezione reciproca. Al seguito della tribù più forte in quel momento, allargano
il proprio spazio. Al seguito di un capo proveniente da quella stessa tribù particolarmente
dotato, che sembra protetto dal Cielo (vedi infra), fondano imperi. L’impero turco
è centralizzato e fortemente gerarchizzato. È diretto fin dagli antichissimi tempi
dei Juan-juan da un khan divenuto kaghan (khan dei khan), il primo dei quali è il
capo eccezionale diventato sovrano assoluto. I suoi discendenti erediteranno il
suo potere e, se verranno fuori con lo stesso sistema nuove personalità che prenderanno
il sopravvento nell’impero, costoro non potranno in nessun caso pretendere di usurpare
il trono appartenente alla dinastia regnante. Sarà questo il caso, che vedremo in
Dobrugia, di Nogay e dei suoi discendenti. Ma se questa è la regola moltissime saranno
le eccezioni, determinate da vari fattori particolari e specifici a seconda delle
situazioni, tutti tendenti comunque alla preservazione dei privilegi del gruppo
egemone. La stele orkhonica, ricca anche di significati simbolici, dedicata a Kül
Tegin fatta redigere nel 733 d.C. da suo fratello Bilge Kaghan ben ci illustra queste
“ascese imperiali” di semplici capi turchi:
“Mio padre il Kaghan uscì
[dalla foresta] con ventisette uomini. Sentendo il rumore che egli faceva uscendo
e avanzando, quelli che erano nei villaggi fuggirono sulle montagne e quelli che
erano sulle montagne ne discesero. Quando furono insieme [agli uomini di mio padre]
giunsero ad essere settanta. Poiché il cielo diede loro la forza, la schiera di
mio padre fu come un branco di lupi e i suoi nemici furono come pecore. Combattendo
ad oriente ed occidente essi radunarono il popolo, lo fecero sorgere e il suo numero
giunse a settecento. Allora egli tolse il potere a popoli indipendenti, depose dei
khan, ridusse altri popoli in servitù ed impose loro le nostre leggi”.
L’imperatrice, dotata anch’essa di un potere notevole, è la khatun. La coppia
imperiale è anch’essa divina (ma deve averlo dimostrato precedentemente). I gran
signori dell’aristocrazia guerriera erano i beg (o bey), termine oggi degenerato
in turco moderno al solo “signore”, ma che veniva ad esempio tradotto come “capitaneus”
nell’Ungheria medioevale, segno del ruolo militare primario degli stessi. Presso
i Bulgari il beg era detto bai con significato di “nobile” e di “ricco” e un consiglio
(bolyar o boylia) di costoro assisteva il khan. Dal bai attraverso l’intermediazione
russa, deriverà il termine boyar, (ovvero il boiaro slavo e rumeno!). Ma anche tra
i bai bulgari la funzione militare è sempre presente, rappresentata dal termine
baghain (ovvero i generali) derivato dalla medesima radice turca. Il popolo era
quasi sempre in uno stato economico dignitoso, anche perché era un dovere del khan
mantenere le sue genti nell’opulenza, per garantirsi un sostegno che avrebbe altrimenti
potuto facilmente perdere. Sempre nella stele di Kül Teghin troviamo raccomandazioni
al riguardo: “Scossi il povero e insignificante popolo nostro. E feci ricchi i poveri
e il poco lo trasformai in molto.”
L’organizzazione ferrea del sistema delle
imposte garantiva un controllo costante sia delle città che delle comunità agricole
o pastorali più isolate, che naturalmente, erano un bene da proteggere quando minacciato.
L’apporto difensivo dato ad esempio dai Peceneghi alle città danubiane anti-bizantine
è da intendersi in questo senso.
La vita religiosa e alcuni aspetti
della vita quotidiana
Le varie confederazioni turche dell'Europa orientale
adottarono diversi credi religiosi in differenti epoche. Ma se la maggior parte
delle élites adottò una forma di cristianesimo, certamente fu la kara bodun (“Il
popolo nero”) ovvero il complesso delle tradizioni religiose e delle consuetudini
del popolino a mantenere viva la “turchità” dei Turchi anche se, minacciata dai
nuovi credi nelle proprie tradizioni ataviche, una parte della nobiltà turca si
ribellerà per ristabilire i propri privilegi (è il caso, ad esempio, dei Bulgari
di Teletz).
Jean-Paul Roux ha esemplarmente descritto le credenze e le usanze
religiose dei popoli delle steppe antichi e medioevali nella sua “La religione dei
Turchi e dei Mongoli” ed è alle sue note metodologiche che ci si può appoggiare
in una materia così complessa. Per quello che riguarda direttamente la presente
monografia, ci si limiterà a delineare alcuni tratti salienti del sostrato religioso
turco-mongolo degli attuali Turco-tatari di Dobrugia, sostrato che, come ha ben
dettagliato Mehmet Naci Önal, ha molto in comune sotto molti aspetti con l’immenso
patrimonio spirituale degli altri Turchi, siano essi musulmani o altro.
Generalmente
si definisce il complesso delle credenze tradizionali turco-mongole come sciamanesimo.
In Romania molto spazio viene dato all’opera di Mircea Eliade riguardante questo
soggetto. J. P. Roux ha perfezionato e adattato allo specifico dell’area turca le
lezioni del grande storico delle religioni rumeno, oramai scritte da ben più di
un quarto di secolo. Secondo Roux:
“Benché il fenomeno che ha definito
questa parola [sciamanesimo, N. N.] si ritrovi integralmente o parzialmente in altre
religioni del mondo, esso ha fatto dell’Asia centrale e settentrionale la sua terra
d’elezione, quella dove si manifesta più completamente, più chiaramente, nella maniera
più costante e con la più grande stabilità. Allora anche se gli altri fatti religiosi
non sono identici presso tutti i popoli altaici, la parola sciamanesimo riveste
una stupefacente uniformità e presenta solo delle varianti di particolari”.
E, in definitiva:
“Lo sciamanesimo è definito dall’insieme delle
azioni specifiche che lo sciamano compie in un certo contesto per ottenere dei risultati
precisi”.
Quindi un complesso di credenze che ha come centro le azioni
dello sciamano. Ma chi è costui o meglio, è mai esistito lo sciamanesimo tra i Turchi
dobrugiani?
Alla prima domanda si può rispondere abbastanza tecnicamente
seguendo sempre il Roux: “È sciamano chi è dotato di una personalità troppo forte
per poter rientrare in una qualsiasi catalogazione”. Naturalmente questa personalità
deve essere inserita in un contesto che la riconosce come tale e che la valorizzi.
Non solo un guaritore o un intermediario quindi, ma qualcosa in più. Può divenire,
in casi particolari, un trascinatore di masse e un agitatore sociale (lo si riconoscerà
nei vari dede anti-Ottomani che infiammeranno la Dobrugia). La parola shaman è di
origine tungusa ed è stata applicata in Europa solo a partire da un paio di secoli
fa dopo l’ambasciata di Isbrand in Cina alla fine del XVII secolo. Risulta essere
quindi una forzatura l’ipotesi di M. A. Ekrem che vuole il villaggio dobrugiano
di Shaman (oggi Luminitza) abitato o fondato appunto da uno sciamano.
È invece
alla parola turca comune kam che dobbiamo prestar fede se vogliamo trovare tracce
di sciamani in Dobrugia. Questo termine è testimoniato, oltre che nel Divan di al-
Kashgarî, anche nel Codex Cumanicus con lo specifica di kam katun che sta a designare
il corrispettivo latino incantatrix. Quindi lo sciamano dobrugiano sarebbe stata
una donna, almeno per il compilatore del glossario e in periodo cumano. Ma il sesso
dello sciamano non sembra essere importante tra i Turchi in periodo non islamico.
Un altro termine turco, oltre kam, sembra essere beki, che attribuirebbe in un periodo
molto antico a quelli che diverranno i beg una funzione superiore a quella semplicemente
militare.
Gli dei dei Turchi sono vari, ma uno sembra avere un ruolo preminente:
Tanrï (anche Tangrï e altre varianti), il Dio-Cielo. Egli è eterno, celeste, elevato,
per alcuni creatore per altri no, dato che l’universo “è stato fatto” o “si è formato”.
Impartisce ordini, fa pressione sugli uomini, non conosce altro castigo che la morte.
È un dio trascendente, accessibile ai sovrani dotati di particolari forze vitali
(kut), oltre che agli sciamani e alle anime ornitomorfe dei defunti per i quali
è uno dei luoghi di soggiorno. Se vuole può entrare in contatto con gli uomini attraverso
i suoi messaggeri, quasi sempre uccelli predatori quali aquile e falchi, e i suoi
raggi di luce danno vita e rendono gravide le donne destinate a partorire capi ed
eroi. È a questo dio che i Bulgari edificheranno, smentendo le interpretazioni di
Xenopol sulla non capacità costruttoria dei Turchi, un tempio in pietra (distrutto
dai cristiani nel 865 per far posto a una chiesa successivamente demolita dalla
reazione pagana) nella loro prima capitale Pliska. Ed è a Tanrï che i Cumani cattolicizzati
dedicheranno le loro preghiere. Tanrï è accompagnato da una serie variabile di dei
secondari, alcuni dei quali sono soltanto una sua diversa manifestazione.
Gli animali nella società turca arcaica detenevano un ruolo non trascurabile.
Oltre a contrassegnare molto spesso l’antenato eponimo di una determinata gens servivano
per scandire il tempo. Anche tra i Turchi dobrugiani troviamo l’uso del calendario
dei Dodici Animali, preso in prestito dalla Cina. La sua più antica attestazione
è del 584 d. C. risale ai Türük occidentali. Tramite gli Avari raggiungerà l’oriente
europeo e verrà utilizzato dai Bulgari (che ne lasceranno testimonianza) a partire
dal VII secolo. Si fonda di un ciclo di dodici animali secondo il quale ogni anno,
ogni mese, ogni giorno sono posti sotto il segno di un animale differente:
Nome italiano |
Nome turco |
Mese |
Topo |
Sïcgan, küskü |
Dicembre |
Bue |
Ud |
Gennaio |
Tigre |
Bars, pars |
Febbraio |
Lepre |
Tawïshgan |
Marzo |
Drago |
Luu |
Aprile |
Serpente |
Yïlan |
Maggio |
Cavallo |
Yont (at) |
Giugno |
Montone |
Koyn |
Luglio |
Scimmia |
Biçin |
Agosto |
Gallo (pollo) |
Takiku (tavuk) |
Settembre |
Cane |
It (köpek) |
Ottobre |
Maiale |
Lagzïn |
Novembre |
Si è già accennato al profondo legame che lega i Turchi dobrugiani con il mondo
della pastorizia nomade. Proprio perché difficilmente dissolubile essendo alla base
della propria potenza militare, è facendosi forti di questo legame che i guerrieri
dominatori stanziatisi in Dobrugia e Bucak svilupperanno tecniche costruttive specifiche,
proprio l’esatto contrario delle teorie più volte citate di Xenopol. Adattando in
un primo tempo vecchi edifici romani ai propri scopi difensivi immediati, i Turchi
fonderanno città dalla struttura particolare, adatta al loro tipo di sistema sociale
fondamentalmente intriso di nomadismo guerriero. Generalmente la “città” turca è
simile ad un campo militare. Pliska è un immenso campo fortificato di ventitre km2
protetto da tre cinte difensive. La cintura esterna è costituita da una trincea
di terra, la città interna da una poderosa fortezza di pietra costituita da blocchi
di calcare squadrati e si trova quasi al centro della superficie fortificata. Lo
stesso materiale è utilizzato per i primi grandi edifici di rappresentanza a loro
volta innalzati al centro della fortezza interna. I grandi corpi del palazzo si
profilano nettamente sullo sfondo delle abitazioni ordinarie dei nomadi, la yurta
e la capanna seminterrata degli agricoltori slavi. Si potrebbe obiettare che la
città è stata costruita da maestranze non turche ma i signori bulgari la fecero
modellare seguendo le proprie idee, gusti ed esigenze. Questa città infatti è costruita
su modello dell’accampamento circolare nomade che Guglielmo da Rubruk ritroverà
alla corte di Batu Khan lasciandone esatta descrizione:
“Quando vidi la
corte di Batu ne fui molto impressionato. Sembrava quasi una grande città estesa
in lunghezza e circondata ovunque da grandi masse di gente fino a tre o quattro
leghe di distanza. E così come ciascun membro del popolo d’Israele sapeva dove piantare
le tende rispetto al tabernacolo, anche costoro sanno perfettamente da quale parte
della corte devono fermarsi quando poggiano le case a terra. La corte viene chiamata
orda nella loro lingua, e il significato di questa parola è “mezzo” poiché si trova
sempre in mezzo ai sudditi, anche se in realtà nessuno ferma la sua casa a sud della
corte del capo, dato che in quella direzione si aprono le porte della corte stessa.”
Le fortezze poste in punti strategici, servivano più alla segnalazione
del nemico che alla difesa effettiva vera e propria.
Ricchezza e arte tra
i Turchi del Mar Nero andavano di pari passo. La forte attrazione per la ricchezza
materiale spingeva a volte i capi più influenti ad accumulare veri e propri tesori
che abilissimi fabbri artigiani (anche costoro in buona parte dotati, secondo il
complesso di credenze sciamaniche del popolo, di poteri speciali) tramutavano in
preziosissime opere d’arte di uso comune. Pettini, fibbie, spade, piatti, bardature
per cavallo e altri elementi della vita quotidiana del ricco nomade guerriero servivano
ad accentuare la distanza tra costui ed il resto delle genti a lui vicino, sempre
seguendo quella logica del kut divino, dimostrato e soprattutto dimostrabile e da
mostrare per accentuare e/o mantenere il consenso del propri seguaci. Animali mitici
e totemici, eroi combattenti e scene guerresche ornavano questi oggetti. Il cosiddetto
“Tesoro di Attila” di Nagyszentmiklós, ritrovato nel 1799 nella località rumena
di Sînnicolau Mare è forse l’esempio più evidente e famoso della ricchezza materiale
ed artistica nella vita domestica dei Turchi dell'Europa orientale.
Se il
tributo imposto dai Turchi dobrugiani ai propri soggetti sedentari è quasi sempre
in natura (in virtù di parti della produzione o corvées), quello richiesto ai Bizantini
è costituito principalmente da metallo prezioso. Il khan avaro Baian nel 574-575
ricevette come tributo annuale da Giustiniano II 80.000 solidi, corrispondenti a
circa 350 kg d’oro. Dopo la presa di Sirmium la “tassa” aumentò a ben 100.000 solidi,
ovvero a circa 450 kg del prezioso metallo. Facilmente trasportabile, suddivisibile
e utilizzabile per i più diversi scopi, l’oro è soprattutto visibile, è segno riconosciuto
e riconoscibile di status terreno.
Le scarne note sopra citate sulla vita
sociale dei Turchi antichi e medioevali di Europa orientale servono solo ad illustrare
in breve alcuni aspetti caratteristici di quelle genti, aspetti che ritroveremo,
in forme diverse ma ben riconoscibili anche in periodo ottomano.
BIBLIOGRAFIA
La seguente bibliografia è riferita
soltanto alle opere in lingua italiana, numericamente poco rilevanti ed il più delle
volte datate ma di facile reperimento. Ulteriori riferimenti si trovano in dettaglio
nel volume dal quale sono tratti i paragrafi sopra illustrati:
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in turco.” OM, XXI (1941), p. 145-150.
- Bessone, Luigi, Stirpi barbariche e Impero sul Reno e sul Danubio, Firenze,
1977
- Bussagli, Mario, Attila, Rusconi, Milano, 1986
- Conte, Francis,
Gli Slavi. Le
civiltà dell’Europa centrale e orientale, Einaudi, Torino, 1991
- Cossuto, Giuseppe, “Appunti su alcune popolazioni turcofone del litorale
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fenomeno internazionale, vol. I, p. 189-198
- Eliade, Mircea,
Lo Sciamanismo
e le tecniche dell’estasi, Ed. Mediterranee, Roma, 1991
- Eliade, Mircea,
Spezzare il
tetto della casa, (I ed. francese Briser le toit de la maison, 1985), ed.
It. Jaca Book, Milano, 1988
- Erodoto, Storie, Roma, Newton Compton, 1997
- Iacubovski, Alexander e Grecov, Boris Dimitrievich, L‘Orda d’oro e la sua
decadenza, Firenze, 1957
- Il Canto
dell’impresa di Igor, introduzione, traduzione e note di Eridano Buzzarelli
con testo russo a fronte, Bur, Milano, 1991
- Jordanes, Getica, ed. italiana a cura di Elio Bartolini, ed. TEA, Milano
1991
- Juvaini, Ata Malik, Gengis Khan (Ta’rih-i Jahan Gusha), ed. it. a cura di
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1992.
- Pian del Carpine, Giovanni da, Viaggio a’ Tartari (Historia Mongolarum),
ed. it. a cura di Vanni Bramanti, De Agostini, Novara, 1982
- Rossi Ettore, “Storia dei Turchi”, in Le Civiltà dell’Oriente, Vol. I, Roma,
1956
- Roux, Jean Paul, I viaggiatori del Medioevo, Garzanti, Milano, 1990
- Roux, Jean Paul, La religione dei Turchi e dei Mongoli, ECIG, Genova, 1990
(Ia ed. Les religions des Turcs et des Mongols, Payot, Paris, 1984)
- Roux, Jean Paul,
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- Rubruck,Guglielmo di, Viaggio nell’impero dei Mongoli, Lucarini, Roma, 1987
(a cura di Claude e René Kappler)
- Stahl, Henry,
La comunità
di villaggio, Jaca Book, Milano, 1976
- Storia segreta
dei Mongoli, a cura di Sergej Kozin, ed. it. a cura di Fosco Maraini, Longanesi,
Milano, 1973
- Turri, Eugenio,
Gli uomini
delle tende. I pastori nomadi tra ecologia e storia, tra deserto e bidonvilles,
Edizioni di Comunità, Milano, 1983.
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